lunedì 13 aprile 2015

Come un corpo estraneo

Alcuni giorni fa ho trovato su Facebook un articolo del Fatto Quotidiano sugli expat che dal Regno Unito decidono di rientrare in Italia. Un pezzo dal taglio molto radicale, in cui le esperienze riportate raccontano di una Londra cara e ingiusta e di come l'ubriacarsi rappresenti la cifra stilistica dell'altrimenti inesistente socialità UK. E leggendolo, confesso, mi sono irritata.


Mi sono irritata in primo luogo per il taglio così platealmente, e faziosamente, negativo, il serpeggiante tentativo di scoraggiare chi accarezza l'idea dell'espatrio, quasi l'articolo serva da diga per arginare la costante diaspora di Italiani verso l'Inghilterra. Ma soprattutto mi ha infastidito l'insinuazione di fondo che attribuisce al Paese, al clima e ai suoi abitanti il "fallimento" dell'esperienza expat e il rientro in Italia di alcuni. Secondo il giornalista chi è tornato in Italia l'ha fatto perché Londra è cara, ingiusta, il costo della vita altissimo, il clima orribile, non ci sono buone opportunità di lavoro e, soprattutto, gli Inglesi non sono interessati a socializzare, per cui ci si sente terribilmente soli.

Lungi da me negare cose che ho rilevato io stessa, però... siamo sicuri che le scelte e le aspettative personali dei singoli debbano essere esclusi dall'addizione? Per carità, ogni esperienza ha un suo valore e una sua unicità, ma proprio in virtù di questa unicità faccio fatica a considerare le poche storie dell'articolo come esemplificative delle migliaia di storie di emigranti italiani che sono approdati qui.

Tralasciando motivazioni idiote come il clima e il cibo - che se queste sono le ragioni per cui si decide di rientrare in Italia, sarebbe stato meglio non andarsene affatto - l'integrazione e il trovarsi bene o male dipendono prima di tutto da noi. Ma davvero ci aspettiamo di andare in un paese straniero e trovare un tappeto rosso fuori dalla scaletta dell'aereo, braccia aperte, collane hawaiane, cocktail di benvenuto e la nonnetta British che al posto di tè e scones ci offre espresso e brioche?

Perché se queste sono le aspettative, mi ripeto, rimaniamo a casa. Voglio dire, nessuno ci ha puntato una pistola alla tempia, non è che i medici prescrivono il trasferimento in Albione come cura per il colesterolo alto, né sono gli Inglesi a narcotizzarci, legarci come salami e buttarci imbavagliati nel baule di una macchina con volante a destra per trascinarci qua. Se siamo qui è perché lo abbiamo voluto. E se non ci troviamo bene, se le cose non vanno come pensavamo, se le aspettative rimangono deluse, be'... forse è colpa della testa con cui siamo partiti, più che del paese o della nonnetta inglese che in verità manco ce lo ha offerto il tè con gli scones.

Prendiamo il caso delle offerte di lavoro. Bisogna sapere l'inglese per lavorare qua. E bisogna saperlo bene se si vuole sperare di trovare un lavoro pagato decentemente. Se si hanno difficoltà le posizioni, e i compensi, a cui si può aspirare si riducono. Sensibilmente. E questo al netto di qualifiche ed esperienze lavorative pregresse. Il che significa, ben vengano anche posizioni da volontario o con rimborso spese nell'attesa di trovare un lavoro retribuito. O ci sentiamo così superiori da non voler fare quello che normalmente fanno moltissimi disoccupati inglesi?

E poi c'è il discorso solitudine e difficoltà di integrazione con gli autoctoni. Lungi da me affermare che gli Inglesi siano espansivi, calorosi e che ti spalancano la porta di casa dopo cinque minuti che ti conoscono. Non è così. Gli Inglesi hanno una socialità estremamente ingessata, sono poco portati a invitare gente a casa, sono allergici al contatto fisico e talmente repressi da aver bisogno di ubriacarsi in tempi brevi per togliersi finalmente la scopa dal culo e lasciarsi un po' andare in compagnia.

Noi Italiani non siamo così, ma abbiamo moltissimi altri difetti, tra cui il sentirci in diritto di imporre il nostro "modus socializzandi" al prossimo. Se abbiamo l'abitudine di citofonare non annunciati agli amici per farci offrire il caffè, ci risentiamo quando incontriamo qualcuno che si infastidisce per queste intrusioni. Oppure, abituati alle faide gastronomiche di inviti a cena ricambiati a più riprese con escalation culinarie degne di Masterchef, ci offendiamo se i conoscenti britannici che abbiamo ucciso a badilate di tagliatelle al ragù ci invitano a malapena per il tè delle cinque. Facciamocene una ragione. Siamo noi che dobbiamo farci accettare, non il contrario.

Però, ecco, la cosa che più mi ha infastidito dell'articolo è la chiusa - "Io credo che chi è a Londra da molti anni non possa non sentire la mancanza di casa. Chi dice il contrario o non ci ha ancora trascorso abbastanza tempo o sta mentendo" - l'insinuazione che dopo un po' di anni che si è qua si voglia inevitabilmente tornare in patria e che, per forza, ci sia pochissimo spazio di integrazione, unita alla scoperta dell'acqua calda, la nostalgia di casa.

Lo avevo già scritto tempo fa. Per me espatriare è stato un più un trasloco mentale che non geografico. La verità è che siamo immigrati e sempre lo saremo. Non ci sarà mai un momento in cui ci sentiremo inglesi e perfettamente integrati. Siamo arrivati qui con troppo bagaglio per riuscirci e la nostalgia di casa è qualcosa che ti accompagna sempre, fin dall'inizio. Anzi, soprattutto all'inizio, quando la tua routine è andata in frantumi e devi trovarne una nuova e non è facile e ci sono mille cose da capire e non conosci nessuno. Fa parte del pacchetto. Poi, con un po' di apertura mentale, le cose migliorano. In fondo, dobbiamo accettare che, probabilmente, saremo sempre dei corpi estranei. Ma perché questo deve essere necessariamente un male?

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